Visione
Una sera di un futile gennaio decisi che era il momento di smetterla: troppo tempo passato in pensieri, problemi, sacrifici inutili. Quel genere di pensieri che ti fanno stare in colpa anche solo a uscire di casa quando in ogni caso il tempo è perso. Stanco delle solite cose, dello status quo, avevo bisogno di qualcosa che riaccendesse in me la passione, che mi facesse di nuovo sentire vivo dopo mesi di torpore: non parlo di semplice staticità, ma di quello stato in cui si rimane a lungo, senza che te ne rendi nemmeno conto, dovuto alla solita routine, fino a che ad un certo momento senti un ronzio nelle orecchie: ma io che cazzo sto facendo?
Non avevo più scuse per rimanere piantato nei soliti posti, con la solita gente. E poi si sa, quando ti piace il punk, anzi se sei un punk, di una cosa sei certo: devi sbattertene di tutto, essere pronto a rinnegare anche solo per un momento tutto ciò che hai per ritrovare ciò che sei.
Decisi di partire.
Non importava che fossi solo, non importavano i chilometri macinati nella solitudine senza avere certezze sulla destinazione.
Lo feci e basta.
Una serata in un locale in cui non ero mai stato, con band che non avevo mai sentito e persone che non avevo mai visto. Ma questo non m’impedisce di gettarmi sotto al palco per liberarmi dalle solite idiozie che accompagnano una vitta fatta di maschere e compromessi.
Arrivato troppo tardi per sentire gli Ultracombo, arrivato giusto in tempo per sentire del sano punk animalesco dei Zëne e degli Underball. Nei brevi momenti di pausa, una boccata d’aria nei quartiri urbani del vicentino.
Al mio rientro, non sapevo che qualcosa sarebbe cambiato… non ancora.
I ragazzi che avevano suonato finora erano energici, disinibiti, a tratti espressione di un piacevole pessimo gusto.
Ma l’energia dei Confine era diversa.
Rabbia pura e schietta, quell’odio che nessuno vuole o chiede: c’è e basta.
Un odio che te ne sbatti i coglioni, punti la testa e sfondi quella cazzo di porta che ti confina a una vita fatta di apparente certezza, le cui garanzie non sono altro che carta straccia.
Sotto la voce spigolosa dei Confine puoi liberarti dalle catene dei pregiudizi e dei limiti più stupidi, ma che sono ormai parte fondante della mediocrità quotidiana. Una volta spezzate le catene, si libera il rancore, sedimentato pietra dopo pietra nell’inconsapevolezza del torpore quotidiano, e odio, tutto l’odio che puoi provare quando capisci che fino a quel punto sei rimasto su un binario regolato da scambi già impostati e mascherati da scelte.
I Confine non dimostrano solo menefreghismo: ne sono l’incarnazione. Vedere un cantante presentarsi con una polo e braghe corte curante non dello stile, ma della sola cosa che conta – la cattiveria, dimostra come a fare il punk sia solo l’atteggiamento di chi non ha nulla da perdere, se non la propria visione.
Proprio la visione era ciò che ti coinvolgeva: niente scenate da palco, tatuaggi o creste fluorescenti, ma solo sapere che la follia quotidiana dev’essere affrontata con l’incazzatura più cattiva che tu possa portare sul volto. Quando, levata la voce, ma non si può fare a meno di cantare, ecco che ci si fionda sul microfono della seconda voce: qualsiasi cosa per portare a termine l’opera.
Infilate le chiavi nella serratura, parto per il ritorno.
La serata è stata grandiosa: ero da solo, ma non m’importava. Era necessario.
Nella strada per il ritorno procedendo per vecchie statali, sono ormai sulla via di casa. Preso completamente alla sprovvista, noto una vecchia casa rustica a un incrocio da cui parte una stradina. Basta poco per ottenere la mia curiosità: e raramente la domino. Svolto e mi ci fiondo, scoprendo nel buio della notte le vie dimenticate della campagna vicentina. Nel deserto viaggio notturno, il mio animo è tutt’uno con la scoperta, in vie che si fanno sempre più strette e una campagna sempre meno densa. Uno scorcio mi prende: ingrano la retro, pianto il freno a mano ed esco.
Mi fermo a pensare su ciò che faccio, ciò che sono… Presto la visione placa questi pensieri: le curve della stradina asfaltata tagliano il terreno, file di alberi interrompono in lontananza lo sguardo, con la nebbia che inganna l’orizzonte. Ma appena prima della nebbia…
Un alto casone sproporzionato, illuminato dalla luce soffusa della luna si erge su un campo. A giudicare dall’aspetto deve portare con sé il peso di un secolo di storia, conflitti, vicissitudini. Nella vaga inquietudine notturna, riprende nella mia testa Medicina. E allo stesso tempo riprendono i pensieri.
Cos’è ciò che vedo, se non sempre il solito terreno calpestato e ricalpestato da uomini generazioni davanti a me, contadini che passano e ripassano in questa terra anno dopo anno nella speranza di ottenere qualcosa in più? Soldati che schiacciano passo dopo passo sempre la solita terra, per disfare e rifare imperi?
Quell’alto casolare mi riproietta per un momento in un passato sconosciuto… Ma quando il peso del tempo sarà insostenibile, e il crollo diverrà certezza, non rimarrà nemmeno il tramite a questo passato: ma solo questa terra anonima, che le ha viste veramente tutte, ma che ci è insignificante.
Ora anch’io calpesto questa terra, consapevole di un’infinità di errori commessi, ed ecco che riparte il solito ciclo, alla ricerca di risposte che forse non sarò mai in grado di raggiungere, ma non mi posso fermare: si riparte dall’inizio. E il mio nuovo inizio ha per colonna sonora Surf 4…
Ispirato dai brani
Medicina, Surf 4 dei Confine